Un anno. Ti
volti e non t’accorgi che è già passato. E’ la vita, è la sua inesauribile
storia fatta di difficoltà, amarezze, ingiustizie, ma anche di tante positività
che rallegrano il cuore. E così non hai neanche il tempo di gustare la gloria e
la felicità che già sei coinvolto dalla tristezza che mette a nudo tutta la tua
fragilità di uomo. Il 14 febbraio del 2004, in una stanza d’albergo di Rimini moriva Marco Pantani. Proprio nel giorno di San Valentino, il Santo Patrono degli
innamorati. Che coincidenza, il giorno dell’amore che s’interseca al giorno
della morte. Uno strano destino quello di Pantani, che ancora oggi è avvolto da
un mistero incredibile e da tanti “perché”
che a quindici anni dalla sua morte non hanno ancora avuto risposta. Troppe le
stranezze sulla sua morte, una su tutte l’ematocrito che un giorno prima era
ben sotto il livello consentito dal regolamento e il giorno dopo è apparso
improvvisamente alle stelle. Il Marco campione d’Italia di ciclismo è morto per
overdose, forse perché non ha retto alle male lingue, alle oppressioni esterne
e a certi giudizi penalizzanti che gli hanno scavato l’anima. Egli parlava alle
montagne: “Mi butto perché ho voglia di
volare, anche se arrivo in vetta
dopo aver pedalato sul dolore e dall’altra parte non c’è niente”. Un
ragazzo forte fisicamente, che amava scalare le montagne con la sua bicicletta,
con la forza delle sue gambe, dei suoi polmoni, perché ogni salita era una
sfida con sé stesso, contro il mondo avverso. Difficile capire il campione, ma
ancor più complicato è capire l’uomo Pantani, pur viaggiando metaforicamente
assieme a lui sulla sua sella, sulla sua bicicletta così abituata a portare il
peso di 55 kg, l’esatto peso corporeo del “pirata” di Cesena. Per cercare di
capire lui e la sua storia, dovremmo fare un percorso antropologico sulla sua
esistenza, entrare nella sua anima per sapere cosa porta una persona a soli 34
anni a farla finita con la vita, con quella vita che resta pur sempre il bene
più prezioso che Dio ci ha dato. Ma la disperazione, si sa, è cattiva
consigliera, annebbia la vista, il cervello, ti fa credere che dopandoti starai
meglio, vivrai meglio. Ma quando ti accorgi di aver imboccato la via della
morte e del non ritorno alla vita, ti rendi conto che è troppo tardi. Marco Pantani ha finito
così la sua giovane esistenza, in maniera disarmante e amara. Dice la mamma Tonina Pantani: “Il mio dubbio più grande è che Marco possa essere stato ucciso”.
E, in effetti, troppi dubbi e perplessità avvolgono quella strana morte del
Pirata. Dallo strano disordine della camera d’albergo in cui è stato trovato
cadavere, ai suoi giubbotti lasciati a Milano e ritrovati nel residence “Le Rose” dove si era recato senza
bagaglio. Domande che ancora oggi non hanno avuto alcuna risposta, ma che mamma
Tonina ripete con convinzione
perché, secondo lei suo figlio Marco non si è suicidato ma è stato ucciso. “Marco era il numero 1” dice mamma
Tonina, “è stato un atleta irripetibile, un ragazzo buono e coraggioso. Avrebbe
dovuto mandare a quel paese tutti
quanti, soprattutto coloro che gli dicevano di non vincere. Il doping? È sempre
esistito, però Marco non lo ha mai
preso”. Cuore di mamma che, addolorata, esprime tutto il suo legittimo
cordoglio per un figlio perso in maniera tragica. Ma dove sta la verità? Non
sappiamo se ad oggi continuino ancora le indagini, tuttavia, ci piace ricordare
il campione ma, soprattutto, l’uomo che c’era in lui. Oggi, a distanza di quindici
anni dalla sua morte, piangiamo un ragazzo che con le sue gesta ha entusiasmato
gli appassionati di ciclismo ad alti livelli. Uno sport che per fatica fisica e mentale si rivolge spesso a
quel doping che da sempre ha illuso e ingannato con fatue promesse.
Salvino Cavallaro
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