SI SPEGNE UNA STELLA DELLO SPORT MONDIALE, MUHAMMAD ALÌ.


Quando muore una persona, sia essa conosciuta pubblicamente o
no, è sempre una grave perdita. Ma quando a morire è un personaggio che ha
determinato una svolta sociale con il suo esempio di vita, allora la perdita
per l’umanità è davvero enorme. Oggi lo sport di tutto il mondo piange la morte
di Cassius Clay, poi Muhammad Alì dopo la conversione all’Islam. Aveva 74 anni.
Era la luce, il faro della giustizia. Più volte campione del mondo dei pesi
massimi, è stato un vero mito, non solo nel mondo della boxe. Il suo era un
modo di fare pugilato in maniera intelligente. Forza fisica, preparazione
atletica e mentale, ma soprattutto carattere forte. La sua caratteristica
tecnica era quella di sapere schivare i colpi dell’avversario muovendosi
continuamente sul ring. Non era tanto usuale questo suo modo di approcciarsi
nel pugilato, soprattutto nella categoria dei pesi massimi. E oggi che è morto,
dopo avere contratto da 20 anni la malattia di Parkinson, sembra impossibile
che quella montagna di muscoli e cervello si sia consumata lentamente come una
candela. Ma Muhammad Alì è stato un grande lottatore anche nella vita. Egli, infatti,
si è battuto sempre per i diritti civili definendosi negro, fin da quando nel
1960 si presentò sul ring delle Olimpiadi al Palazzo dello Sport di Roma. Un
percorso di vita fatto di sport ma soprattutto di lotta per la giustizia in un
mondo in cui da sempre sono radicati i pregiudizi razziali. E’ stato una
leggenda che ha saputo solcare profondamente la società del ventesimo secolo,
un’icona indelebile schierata sempre dalla parte della giustizia, della
verità,della parità dei diritti dell’uomo, sia esso bianco o di colore, non
importa, si tratta di una persona. Questo era il credo di vita di Muhammad Alì
che si manifestava attraverso lo sport, e in particolare in quel pugilato che
da sempre è considerato violento. Ma il suo era un combattere l’ingiustizia con
la massima lealtà. Quell’ingiustizia che sul ring aveva sempre la faccia dell’avversario
di turno. Per questo suo modo d’essere divenne simbolo per il movimento di
liberazione dei neri negli Stati Uniti, anche per aver sfidato il governo
americano, opponendosi all’arruolamento militare per motivi religiosi. Per
questo fu condannato a 5 anni di carcere da una giuria composta da soli bianchi.
Si ritirò dalla boxe per combattere per i diritti umani accanto a Martin Luther
King. Oggi lo ricordano in maniera commossa anche i suoi acerrimi avversari di
sempre, Foreman e Tyson. Segno inconfutabile di rispetto verso un uomo, un campione,
una leggenda che, pur vincendo sul ring, ha pagato le ipocrisie e le
ingiustizie umane per cui ha lottato tutta la vita.
Salvino Cavallaro