Che cos’è la vita. Che cos’è la
morte. E che cos’è il calcio, capace di racchiudere sentimenti così profondi,
controversi e al contempo uguali. Un anno senza Davide Astori. Il calcio si è fermato al 13° del primo tempo e per
13 secondi in tutti gli stadi d’Italia. 13 come il numero della sua maglia che
resta il simbolo di un ragazzo che il destino ha prematuramente strappato alla
vita. Lunghi applausi in tutti gli stadi, qualche inevitabile lacrima e tanta
commozione. C’è stata molta compostezza e partecipazione da parte di tutti, ed
è sembrato quasi che migliaia di persone di fede calcistica diversa si unissero
in un ipotetico abbraccio per riflettere, per ricordare ciò che il tempo non
cancellerà mai. Sì, perché ci sono momenti nel mondo del calcio e nella vita in
genere, in cui certi antagonismi costruiti da antiche ruggini non hanno motivo
di esistere. E’ sembrato quasi che Davide
Astori per 13 secondi avesse messo tutti d’accordo in un’atmosfera
surreale. In alto al tabellone la sua immagine che ormai abbiamo imparato a
volere bene come un’icona di famiglia. Da Cagliari a Bergamo, da Roma a Milano,Torino
e tutti gli stadi, hanno ricordato Davide come se avesse indossato tutte le
maglie del calcio italiano. Sembra ieri, eppure è passato un anno da quel 4
marzo 2018 in cui Astori morì nel sonno in quell’albergo di Udine in cui pernottava
con la sua Fiorentina, nell’attesa di disputare il giorno dopo l’incontro con l’Udinese.
Ma lui, capitano della viola, quella partita non la giocò mai, lasciando attoniti
i suoi compagni che sconfortati non si dettero pace, esattamente come succede
ancora oggi. Così, in quei 13 secondi in cui il fischio dell’arbitro ha
interrotto il gioco, l’amato pallone ha fatto spazio ai pensieri su Davide e
alla sua scomparsa troppo frettolosa, che non ha dato neanche il
tempo di salutarsi, di stringersi in un abbraccio intenso, proprio come dopo
avere fatto un gol. A Bergamo hanno destato forte commozione le copiose lacrime
versate da Ilicic, il quale in un
articolo apparso oggi su diversi quotidiani sportivi, ha detto che in quegli
attimi ha ricordato l’amico Davide, con il quale ha giocato nella Fiorentina,
ma gli è anche venuto in mente il suo dramma vissuto questa estate, quando è
stato ricoverato in ospedale per un’infezione batterica ai linfonodi del collo.
“Quello che è successo ad Astori mi è
rimasto in testa per tanti giorni. C’è stato un periodo in cui avevo paura di
andare a letto e addormentarmi. Temevo di non svegliarmi più e di non vedere
più la mia famiglia. Ho smesso di guardare le partite e il calcio in TV.
Pensavo solo a guarire e stare con la mia famiglia. A un certo punto ho sperato
di poter camminare e non di ritornare a giocare. Poi tutto è passato e ne sono
uscito. Prima mi arrabbiavo per stupidaggini, ora vivo meglio”. Pensieri e
sentimenti che raccontano le fragilità dei campioni del pallone come Ilicic, il quale, nel ricordare il
dramma di Astori, si è immedesimato
nella sua storia personale sfociata in un pianto dirotto in quei 13 secondi, in
mezzo a quel prato verde di Bergamo in cui il pallone, la partita e i giocatori
di Atalanta e Fiorentina si sono fermati. Il calcio è anche questo. Giri le
pagine della commedia del pallone e ne esce il racconto della vita e della
morte come un fatto naturale, come se l’una fosse direttamente collegata all’altra.
Poi, al fischio dell’arbitro, il gioco riprende e la vita continua il suo
scorrere naturale. “The Show Must Go On” – “Lo spettacolo deve andare avanti”.
Salvino
Cavallaro
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