Quando muore una stella
è sempre una fonte inesauribile di luce che viene a mancare. Johan Cruyff è
morto all’età di 69 anni non ancora compiuti. Da un po’ di tempo era ammalato e
combatteva con grande dignità, pur sapendo di essere afflitto da un cancro ai
polmoni. E’ stato la leggenda del calcio totale, quell’innovazione teorico –
pratica che partì dall’Olanda per propagarsi poi a macchia d’olio in tutto il
mondo. Dopo Maradona e Pelè è stato il più grande calciatore del mondo. Un
numero 14 che egli ha voluto stampato sempre sulla sua maglia, durante tutta la
sua attività di calciatore professionista. Dall’Aiax, alla Nazionale Orange, al
Barcellona, dove trovò la sua collocazione di calciatore, poi di allenatore e
quindi di vita privata. Possiamo dire che esiste un calcio che si identifica prima
di Cruyff, e un altro che continua dopo di lui. Squadra corta, pressing alto,
movimento continuo, possesso palla, si integravano perfettamente alla sua
classe innata, ai suoi dribbling, all’intelligenza tattica che egli sapeva
mettere in campo. Era il calcio del dopo “catenaccio”, di quel contropiede che
badava sostanzialmente a difendersi prima ancora di rischiare un attacco che
poteva significare la paura di perdere. Ma con l’avvento di Cruyff, del suo Aiax
e della sua Olanda, intorno agli anni ’70, c’è stata una svolta epocale che
cambiò il senso di un calcio diventato più propositivo, divertente e aggressivo.
Il maggior possesso palla era garanzia di superiorità nel costruire azioni da
gol, togliendo così all’avversario la possibilità di imporre il proprio gioco. Una
logica che non fa una grinza a livello teorico e che Cruyff seppe interpretare
in maniera magistrale, prima da giocatore e poi da coach in quel Barcellona che
s’innamorò del suo calcio totale e che poi nel tempo seppe diventare anche Tiki
Taka, per effetto di molteplici passaggi brevi e precisi che avevano l’obiettivo
di far possesso palla. Massimo due tocchi, senza mai buttare via la palla alla “viva
il parroco”, così come si faceva nel calcio antico in cui si marcava a uomo, e
poi, fatto il gol all’avversario, ci si chiudeva in un’arcigna difesa che non
dava spazio allo spettacolo. Un calcio troppo stantio che doveva subire un’innovazione
culturale e sportiva. Molti furono gli imitatori di quel calcio totale olandese,
cui Johan Cruyff fu il massimo rappresentante. Tra questi, anche il Torino di Gigi
Radice volle imitarne l’esempio, vincendo lo scudetto nel 1975-’76. Imitazioni non
sempre facili da seguire, proprio per quella peculiarità di un calcio globale
in continuo movimento, che richiedeva una preparazione atletica di notevole
dispendio fisico e mentale. Ma fu la logica della svolta di un calcio che non
seppe più tornare indietro e che sull’esempio del maestro allenatore Johan
Cruyff, si fondò la continuità attraverso il credo calcistico imposto da Arrigo
Sacchi, Frank Rijkard, Pep Guardiola, Luis Enrique e altri nomi illustri del calcio
contemporaneo. E così, la storia di quel magnifico numero 14 che ha calcato
prima i campi di tutta Europa e poi la magica panchina del Barcellona, si
chiude proprio in quella città catalana che Cruyff ha amato tutta la vita.
Salvino
Cavallaro
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