Che senso ha scrivere ancora
di calcio quando non si ha rispetto per la vita. Ma che senso ha? Mi verrebbe
voglia di buttare tutto all’aria, mi verrebbe voglia di cancellare in un attimo
i miei lunghi anni di cronista sportivo trascorsi a scrivere di calcio, a
recensire partite su partite, a parlare di tattiche, di tecnica, trofei vinti e
persi, di emozioni che scaturiscono da un abbraccio che scalda il cuore per un
gol fatto o di una lacrima versata per una cocente delusione. Mi verrebbe voglia
di dire basta di scrivere e sensibilizzare il mondo del pallone e di tutto ciò
che ci sta intorno. Pensieri che partono da lontano, che toccano il cuore e che
mi ricordano la gioia di quel giorno in cui sono entrato a far parte
dell’Ordine dei Giornalisti, con l’ausilio di quel “sacro fuoco” di scrivere
che ancora oggi arde in me in maniera copiosa. Sempre dietro al pallone, sempre
a raccontare le vicissitudini legate a questo mondo, ai personaggi che ruotano
intorno, alle cose belle e a quelle brutte, alle cose che mi hanno emozionato e
quelle che mi hanno addolorato. Già, quelle che mi hanno addolorato e più d’una
volta mi hanno fatto sentire sconfitto a causa di un mondo in cui il
giornalismo talora non riesce a incidere positivamente nel processo di crescita
culturale, sociale e civile. Lo stadio di calcio, teatro da sempre di incontro
di popoli e di aggregazione sociale, è spesso considerato (anche nelle sue
immediate vicinanze) luogo di scontri feroci che toccano l’anima che
abbruttiscono in maniera aberrante l’uomo che diventa animale e peggio ancora.
I fatti successi a Roma nei pressi dello stadio Olimpico prima della finale di
Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, mi hanno colpito in maniera particolare e
mi hanno fatto pensare a una sorta di responsabilità del mondo mediatico e
dell’informazione sportiva, (quale io faccio parte), nel non essere riusciti
negli anni a buttare acqua sul fuoco delle critiche, delle polemiche, dei
battibecchi e delle situazioni di accesa passione calcistica che spesso si
tramutano in odio e guerriglia, in cui l’uomo è contro se stesso e non lo sa, in
cui l’essere umano fa emergere l’animale che c’è in lui. E così, dopo il
poliziotto Raciti ucciso durante i disordini di un derby di Sicilia tra Catania
e Palermo e tanti altri che hanno perso la vita precedentemente per il pallone,
torniamo ciclicamente a parlare di altri fatti di delinquenza e di inorridita
ferocia. Stessa la radice, stessa la meccanica della violenza, stessa la
provocazione, stesso l’odio, stessa la VERGOGNA! Ciro Esposito il tifoso
napoletano ferito nella sparatoria proprio accanto allo stadio Olimpico di
Roma, ora versa in coma farmacologico. In base a quanto riferito dal bollettino
medico dell’ospedale di Roma, Esposito è arrivato con il polmone e l’addome
invasi di sangue e adesso c’è il pericolo (se si salverà) che resti paralizzato
per effetto di un proiettile che l’ha colpito e si è conficcato nella zona
della spina dorsale. E intanto, all’interno dello stadio Olimpico lo Stato
Italiano assisteva disarmato. C’era il Presidente del Consiglio, il Presidente
del Coni, il Presidente della Lega Gioco Calcio, i Presidenti di Napoli e
Fiorentina e tutti gli alti funzionari del Potere Italiano, tutti lì ad
assistere inermi ad una vergogna senza fine, a guardare dalla tribuna l’orrendo
spettacolo del capitano del Napoli Hamsik e dei dirigenti della società
Partenopea che vanno sotto la curva dei tifosi napoletani per andare a
concordare l’inizio o no della partita, come se loro fossero l’ago della
bilancia del sì oppure del no decisivo. Che vergogna, che sconfitta di fronte
al mondo che ci guarda e a noi stessi che ci guardiamo allo specchio. Ciascuno
con la propria responsabilità, ciascuno con il fardello carico di pensieri
rivolti a quel ragazzo che versa in fin di vita in un letto di ospedale di
Roma. Ma che male ha fatto, quale torto ha un ragazzo napoletano di 30 anni per
essere stato coinvolto in un agguato di balordi ed essere ridotto in quello
stato? Eppure il pallone, quella sfera sulla quale versiamo tante ansie,
aspettative e delusioni del nostro vivere quotidiano, rappresenta l’effimera
vittoria a tutto ciò che ci dà delusione. Ma il calcio è una passione, deve
essere un diversivo, uno svago, un qualcosa che ti prende dentro ma che deve
essere circoscritto, non può essere una
rivincita alle disgrazie quotidiane e neanche alla delusione di tutto ciò che
avremmo voluto essere e non siamo stati. Discorsi scritti e riscritti mille
volte, che non hanno seguito nell’ambito di un miglioramento sociale, umano e
civile. Non ricordo più quante volte ho scritto la parola “SPERIAMO CHE NON
ACCADA PIU’”. Poi, immancabilmente, tutto ritorna con ciclica periodicità, con
assurda e aberrante violenza inaudita. E allora mi chiedo, a cosa servono tante
parole, tanti pensieri, tante riflessioni, tanti proponimenti nel tentativo di
migliorarci e di migliorare le generazioni che verranno? Servirò ancora alla
causa se continuerò a scrivere di Juventus, Torino, Milan, Inter, Napoli, Roma,
Lazio, Fiorentina, del calcio e delle partite della nostra Nazionale? Ma il
mondo del pallone, con i suoi schemi, le tattiche, il credo calcistico dei suoi
ben remunerati allenatori e le Coppe alzate al cielo, resta pur sempre legato
alla storia dell’uomo e alle sue imperdonabili vergogne.
Salvino
Cavallaro
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