Se ci fosse la corsa allo scudetto tra tifosi
e squadra, il popolo granata avrebbe sicuramente raggiunto il primato ancora prima
del Toro. Commuove questa gente del Toro che segue la squadra in casa e fuori
sfidando il freddo, le intemperie, i disagi logistici, i costi talora rilevanti
per le proprie tasche e anche le immancabili delusioni accumulate nel tempo. Dopo
avere perso il derby della sonnolenza, la squadra di Mazzarri è andata in
quella fatal Verona, storica terra di Giulietta e Romeo, a rimediare una
sconfitta che brucia. Un 2 a 1 penoso, che dalla cella frigorifera del
Bentegodi sbriciola ogni residua speranza granata per l’Europa. La partita del
Torino è stata inguardabile, confusionaria e priva di ogni cosa che possa far
pensare a una gara di calcio. Il Verona, invece, motivato dal suo essere
penultimo in classifica e con il suo allenatore Pecchia in procinto di essere
esonerato, pur senza essere irresistibile ha messo in campo attributi e voglia
di vincere, proprio come fosse la partita della vita. Il pensare di aver trovato
con Mazzarri la terapia giusta per centrare una serie di risultati positivi, ha
allontanato tutti da quella che è la realtà di una società che resta
fallimentare sotto l’aspetto di una gestione che guarda poco al rettangolo di
gioco e tanto ai conti che risultano sempre di un ordine che fa quasi rabbia
per la sua perfezione. E’ la gestione di Urbano Cairo, mister braccino corto
solo per il Toro, che in tutti questi anni di presidenza granata non ha mai
dato l’impressione di essere un imprenditore capace di spendere il dovuto ai
fini di un progetto brillante, ambizioso, senza il chiaro intento di accontentarsi
di poco, anzi di nulla. Troppo spesso ci si dimentica che nel calcio c’è
assoluto bisogno di persone capaci, ma è anche essenziale spendere del denaro e
non solo ricavarlo dalle plus valenze. Altrimenti i tifosi della Curva Maratona,
invece di andare allo stadio per vedere una partita di calcio, fare il tifo per
la propria squadra con bandiere granata, cori da raucedine e magiche coreografie,
finiranno per portare con loro, la carta, la penna e la calcolatrice, per
aggiornare i conti del bilancio della società per cui fanno il tifo. Peccato
che amare una squadra di calcio non è pensare sempre e in maniera ossessiva a
non spendere più di quanto si guadagni, ma è anche innamorarsi del gioco, delle
triangolazioni, dello spettacolo per arrivare a fare gol e avere la possibilità
di vincere per stare in alto alla classifica. Tutto ciò al Toro non succede mai
perché si arranca sempre, non si brilla mai e si resta ancorati a un passato
che dovrebbe essere preso da esempio. Parli con Junior, Claudio Sala, Agroppi,
Pulici, Pecci, e poi scorri gli anni in cui i tifosi granata hanno minimamente
gioito con Asta e Ferrante, ma il tema è sempre lo stesso: rimpiangere il
passato, dal Grande Torino ai giorni nostri. Ma c’è anche un altro aspetto da
considerare nel calcio moderno, ed è l’abilità di saper passare da squadra
provinciale a realtà capace di contrastare le grandi squadre. L’Atalanta del
presidente Percassi insegna che si può diventare grandi, pur vivendo in un
centro non molto grande come Bergamo. Il Torino, invece, sta diventando una
realtà provinciale a causa di tutto un insieme di cose che lasciano pensare a
storiche insufficienze, di vivere l’azienda calcio senza la necessaria attenzione
ai valori tecnici del campo. Non basta cambiare allenatore, se il presidente
non si pone neanche il dubbio che forse a sbagliare è proprio lui stesso.
Salvino
Cavallaro
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