Ho provato a emozionarmi, ma non
ci sono riuscito. Non so se si tratta di un fatto di sensibilità personale o
più semplicemente è il sentimento oggettivo che hanno avvertito in molti. Dopo
avere visto in televisione le due semifinali di Coppa Italia Juventus – Milan e Napoli – Inter ho avuto subito la
sensazione che quello cui stavo assistendo non poteva essere considerato calcio
vero, ma soltanto un traino forzato per portare avanti una stagione calcistica
interrotta bruscamente da quel covid che ci ha cambiato interiormente, aggredendoci
con maligna forza capace di mettere a nudo tutte le nostre fragilità. Ma il
calcio come la vita doveva pur ricominciare, almeno con un tentativo di farlo
con lo sprone di guardare avanti, senza più voltarsi indietro. Tuttavia, questo
lento ricominciare a modi step by step in uno stadio vuoto in cui il silenzio
assordante è stato rotto soltanto dalle urla degli allenatori, dei compagni di
squadra seduti a distanza in panchina, si è sommato allo scambio di opinioni
talora anche accese dell’arbitro con i giocatori. E mentre le partite hanno
avuto il loro regolare svolgimento, mi sono accorto che anche i campioni in
campo hanno manifestato quel “manca qualcosa” capace di smorzare la voglia
di abbellirsi in gesti tecnici che da sempre hanno fatto innamorare i
buongustai del pallone. Quasi che tutto andasse di fretta per chiudere un
appuntamento agonistico forzato, per definire la questione e arrivare presto
alla finale di Coppa Italia che si disputerà allo Stadio Olimpico di Roma il
prossimo mercoledì 17 giugno. Alla fine si sono qualificate Juventus e Napoli, senza tuttavia entusiasmare
gli animi dei telespettatori che, comunque, sono stati numerosi. Secondo quanto
verificato dalla Rai, sembra che solo la finale del Festival di Sanremo abbia superato
un così alto share come queste due semifinali. Segno che la sete di calcio era
tanta, rafforzata ancor di più dalla bramosia di essere stati costretti per tre
mesi a un lockdown che ha sfiancato e reso preoccupati su quanto in Italia
stava succedendo. Ma il calcio, in questo caso, ha certamente un valore
terapeutico più che tecnicamente apprezzabile nei suoi eterni punti di gioco
corale di squadra, enfatizzato dalla differenza apportata dai campioni che in
fondo sono fornitori di delizie balistiche e spunti di alta classe. Ma in
questo calcio del dopo covid (che calcio vero non è) manca la cornice di
pubblico, manca l’essenziale, manca quella cultura che è il centro del patos,
dell’emozione, di quella adrenalina empaticamente capace di essere viva e di
manifestarsi direttamente su ogni calciatore in campo, il quale ne fa tesoro
come apporto positivo di incoraggiamento. Così all’Allianz Stadium di Torino,
così al San Paolo di Napoli, quello che ho visto non mi ha entusiasmato per
niente e, pur sforzandomi, non ho trovato grandi spunti di cronaca da riferire,
se non l’evidente mancanza di forma di giocatori che sono stati fermi tre mesi
e costretti a riprendere l’attività agonistica senza neppure fare un’amichevole
di preparazione. Normale la carenza fisica, muscolare e anche psicologica,
dettata ancor di più dalla mancanza di calore della gente. Tutto piatto, tutto asettico,
tutto proiettato nell’intento di una rinascita forzata ma giusta nel tentativo
di ricominciare. E’ il calcio che ha onorato i medici, ricordato i morti, pensato
le persone che soffrono. E’ il calcio che ha alzato gli occhi al cielo e fatto scendere
sul viso qualche furtiva lacrima. Ma il calcio vero è un’altra cosa. Il calcio
vero ha bisogno della sua gente che tifa, che è presente, pregnante, che urla,
che soffre e gioisce. Questo è il calcio che conosciamo da sempre e ci
coinvolge in opinioni magari esagerate e di parte, ma pur sempre dettate da
forti sentimenti di passione. Ritornerà? Sì, vedrete che prima o poi ritornerà.
Salvino
Cavallaro
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