“IO, QUESTA MAGLIA SOGNAVO DA BAMBINO…”, MA AL TORO MANCA L’ESSENZIALE.


Più che fare la cronaca della
partita Torino – Hellas Verona, ci piace
analizzare alcuni aspetti che spesso si ripetono in casa granata. Dire che la
gara ha manifestato risvolti pazzeschi, è come sminuire l’ennesima delusione di
una logica granata che si presenta sistematicamente intrisa di fuego, di fretta
ingiustificata, di confusione, di esagerazione e di esasperazione che mette
sempre da parte quella logica calcistica che è l’emblema di una serie di
fattori che fanno capo alla ragione, e quindi al cervello. Dopo la scoppola
rimediata nel derby della Mole, allo stadio Grande Torino si prevedeva una
partita di riscatto, tanto più che i granata si trovavano ad affrontare quel
Verona di Fabio Pecchia che naviga negli abissi del fondo classifica. E invece
abbiamo assistito all’ennesima delusione che si accompagna alla storia e alla
cultura del Toro. Contro gli scaligeri la squadra di Mihajlovic è partita a
testa bassa, ha segnato con Iago Falque e Niang e poi in maniera assolutamente
banale non ha saputo gestire il suo prezioso vantaggio. Nel finale di partita,
infatti, succede di tutto con il Var. All’88°, l’arbitro prima annulla e poi
convalida un gol di Kean perché il calciatore del Verona è tenuto in gioco da
un difensore del Toro, mentre al 90° un mani di Molinaro in area di rigore
prepara la frittata granata che dà modo a Pazzini di realizzare il rigore e
conquistare un pareggio insperato. Ma in tutto questo masticare amaro del Toro,
dei suoi tifosi e di un ambiente che aspira all’Europa più per il concetto di
speranza che non per un effettivo manifestarsi di forza, capacità e
organizzazione calcistica, ci fa pensare ad alcuni punti significativi che si
ripetono sistematicamente. La domanda è: “Perché dall’anno 1976 il Toro non può più ambire a
vincere lo scudetto?”. Crediamo che questo sia il vero nocciolo di
una questione che si è radicata in una storia e una cultura granata che spesso
e volentieri si rifugia dietro ai ricordi perché non ha presente. E anche ieri
allo stadio Grande Torino, prima dell’incontro con il Verona, abbiamo assistito
all’innalzamento dei sentimenti romantici che si enfatizzano sempre nel
folclore di una curva maratona che si immerge sempre nel granata attraverso il
vero vestito che si mette in occasione della festa. Valerio Liboni con il suo inno cantato dal vivo in mezzo al campo,
ha arricchito di emozione momenti che fanno sempre capo al cuore: “Io questa
maglia sognavo da bambino……”. Certo, è un bellissimo messaggio,
ma il calcio dov’è? Quando si parla di Toro, infatti, difficilmente riusciamo a
parlare della materia prima come concetto di agonismo legato a un pallone che
della vittoria fa il suo unico senso del calcio moderno. Forse i nostri
concetti sono filosofie legate ai 40anni di non vittorie granata che, tuttavia,
vorremmo separare nettamente dai fatti drammatici che sono oggettivi e legati a
una storia davvero particolare. Ma vorremmo anche separarli dalle grandi
emozioni che nel tempo ci ha regalato la vasta letteratura granata, perché il
Torino è una squadra di calcio di Serie A e come tale bisogna chiedersi perché non
vince. Tra i tanti dire e fare di questo genere sono passati gli anni, si sono avvicendati
tanti presidenti, tanti allenatori e tanti calciatori hanno illuso di cambiare
un percorso di strada che sembra sempre la stessa e che si chiama mediocrità e
consapevolezza nell’adattamento di un convincimento di essere tali. E allora
potremmo parlare e disquisire con analisi opinabili sulle decisioni non sempre
comprensibili di Sinisa Mihajlovic,
piuttosto che sulla sistemazione - tecnico - tattica della squadra che fa capo
a un allenatore e a una società che il presidente Cairo ha rilevato dopo un
fallimento, portandola avanti con alterne fortune che non sono mai riconducibili
a nessun successo. Già, il successo che è figlio di quell’arrivare primi e che
si racchiude nella logica di quel “Vincere
non è importante, è l’unica cosa che conta”, che non è una mera frase di bonipertiana
memoria, ma è un linguaggio universale dal quale chi fa calcio moderno non può dissociarsi.
Salvino Cavallaro